Intervista a Gianni Berengo Gardin


Gianni Berengo Gardin non ha bisogno di presentazioni. Posso solo dire che è stato per me un'enorme piacere avvicinarlo facendogli alcune domande dettate più da mie personali curiosità che da un'impostazione giornalistica. Il tutto è evvenuto il 30 giugno del 2013 per conto di Kodachrome (trasmissione in onda su Radio Barrio che ho il piacere di condurre da circa un anno a questa parte), durante il festival Corigliano Calabro Fotografia. Ringrazio il grande fotografo veneziano per la sua disponibilità, gentilezza e simpatia dimostrate nel rispondere alle mie domande.



1) La nostra trasmissione radio si chiama Kodachrome, come la famosa pellicola a colori non più prodotta. Per cominciare una piccola curiosità: Lei che predilige il bianco e nero, quel’è la pellicola che a tutt’oggi utilizza maggiormente?

Io in verità ho fatto molto colore negli anni passati, specialmente quando lavoravo per il Touring Club e l’Istituto Geografico De Agostini. Però facevo solo paesaggi e architettura a colori. Il reportage l’ho fatto sempre in bianco e nero. Allora usavo tanta Kodachrome ed Ektachrome quando avevo bisogno di pellicole un po’ più veloci.

- Ricordo a questo proposito l’India dei villaggi, dove ha utilizzato anche il colore…

Sì, poco colore lì dove volevo far vedere il cambiamento repentino che c’era durante i monsoni: da tutto arso a tutto verde in due giorni! E questo lo potevi far vedere solo col colore. Però sono convinto che il bianco e nero per il reportage è molto più efficace.


2) “L’importante è per me la testimonianza, fare vedere come eravamo in quel momento”. Lei che ha documentato 50 anni di storia italiana, che ha fatto vedere come gli italiani erano nel momento in cui li fotografava, cosa può dirci dell’Italia di oggi attraverso l’obiettivo della sua macchina fotografica?

E’ cambiato tutto, praticamente, in 50 anni. Da una civiltà contadina siamo passati a una civiltà industriale, anche se oggi l’industria non va tanto bene ed ha dei problemi, però tentiamo sempre di salvarla. Oggi è tutto diverso, completamente diverso. I giovani di allora e i giovani di adesso: allora c’era facilità per trovare lavoro perché uscivamo dalla guerra, eravamo pieni di entusiasmi e di voglia di fare; oggi ci sono i problemi per trovare lavoro che tutti conoscono.

3) Così come nel suo primo libro su una Venezia invernale, poco turistica, spesso nei suoi lavori su singoli luoghi o città è evidente come lei prediliga visioni meno consuete delle località anche più note. Ci vuole spiegare l’importanza di questa scelta?

E’ importante perchè le belle cartoline si comprano dal tabaccaio. Le situazioni meno conosciute, meno note bisogna trovarsele da fotografi.

4) A proposito della foto del ricoverato in manicomio che la imita mentre scatta la fotografia, quanto la macchina fotografica la ha aiutata nell’approcciare la gente ne l suo lavoro? Pensa che lo strumento o comunque il gesto del fotografare possa costituire un modo per avvicinarsi alle persone, stabilendovi un contatto?

Certamente. La macchina fotografica serve non solo per raccontare e far vedere delle cose, è anche un mezzo per avere dei rapporti con le persone. Si incomincia con la foto e poi si chiacchiera, non l’inverso, perchè altrimenti si perde la spontaneità della gente.

5) Ancora a proposito di una sua celebre foto, quella del poliziotto che la carica durante la Biennale di Venezia (che dimostra l’importanza del documentare anche in situazioni pericolose), pensa che questo bisogno di testimoniare ci sia ancora, o ritiene che l’eccesso di immagini che si produce oggi sfoci a volte più nella necessità di spettacolarizzare gli eventi della cronaca?

Dipende. Due mesi fa, ad esempio, ho denunciato con le mie foto su la Repubblica (che le ha dedicato un’intera pagina) le grandi navi che entrano nel bacino di San Marco a Venezia, che sono un pericolo per la città, specie dopo gli incidenti di Genova. Quindi, ancora oggi ci sono delle foto che possono chiamarsi di denuncia.

6) Ricordando le sue fotografie fatte al Lido di Venezia per provare la sua prima Leica, quanto conta il caso nell’ottenere una buona fotografia, nella sua esperienza, e quanto invece diventa importante approfondire un dato contesto quando lo si vuole documentare?

Dipende dalla situazione. Certe volte si fanno delle buone fotografie un po’ per caso (ma non si fanno mai totalmente per caso), un po’ di fortuna ci vuole anche, come nel caso di Venezia. Altre volte, invece, c’è una preparazione alle spalle, uno studio, una ricerca, da cui poi si ricava un libro con una serie di foto, non una soltanto.



7) Lei ama molto fotografare l’Italia, pur avendo girato il mondo, perchè conosce bene la gente che ci vive. Ritiene che l’Italia abbia qualcosa in più rispetto ad altri paesi, fotograficamente parlando, o è più semplicemente una sua personale preferenza?

E’ una mia personale preferenza perchè, come diceva Lei, conosco meglio l’Italia e gli italiani. Però come fotogenia direi che ci sono anche altri paesi che sono molto fotogenici, secondo i punti di vista. Per esempio, io amo molto l’Inghilterra, fotografare gli inglesi, anche se è più facile fotografare a New York perchè c’è più varietà di lingue, di persone, di soggetti; invece l’Inghilterra è tutta più monocorde.

8) “Io penso che la fotografia sia più vicina alla scrittura, alle parole, che alla pittura”. Quanto ritiene che le due cose, fotografia e parola scritta, possano stare insieme in un unico lavoro, ad esempio in un libro?

Io non sono di quelli che dicono “una fotografia dice più di mille parole”; una fotografia dice tanto ma deve essere sempre accompagnata da alcune parole. Ci sono autori come Simenon, ad esempio, che mi danno molte idee essendo molto fotografici; le loro descrizioni sembrano delle fotografie. Quindi testi e fotografie vanno benissimo assieme.

9) Alla frase pubblicitaria di un noto marchio fotografico giapponese che dice “Non pensare, scatta!”, Lei risponde (e così raccomanda ai suoi allievi) “Prima pensa per due ore, poi, eventualmente, scatta”. Allo stesso tempo si pone la questione dell’attimo decisivo di bressoniana memoria, che spesso non consente di riflettere tanto prima dello scatto. Come si riesce a far convivere le due cose?

Secondo me bisogna sempre pensare. Anche per le foto improvvise “alla Cartier-Bresson” si ha il tempo fulmineo di pensare, perchè una foto non pensata non è un buon risultato. Poi dipende dai casi: c’è la foto singola che racconta alla Cartier-Bresson e c’è il lavoro più approfondito, più concreto, di studio e preparazione fatto di più fotografie. Vanno bene tutte e due ma la testa ci vuole sempre. Cartier-Bresson diceva: “voi vi illudete di fare le fotografie con la macchina fotografia; le fotografie si fanno con la testa, con gli occhi e col cuore”. E questo è importantissimo.

10)  Citando una sua dichiarazione, “la fotografia di moda dà molti soldi ma poche soddisfazioni”. Il suo amico e collega Ferdinando Scianna a questo proposito afferma che “oggi la vera ideologia di tutto è la moda. Tutto si indossa, dalle idee politiche alle fotografie”. Lei cosa pensa dell’attuale tendenza per cui l’apparenza, l’esteriorità, ha spesso il sopravvento, anche nella fotografia?

No, no, la fotografia di moda dà molti soldi e anche molte soddisfazioni, a chi ama la moda naturalmente. A me, che non amo la moda, nè per me nè per gli altri, non dà soddisfazioni, quindi è tutto relativo. Anche la foto concettuale non mi dà alcuna soddisfazione, anzi la detesto, però ne dà a tanti altri. Fortunatamente nel mondo c’è posto per tutti.

11) Il “Mondo” è stato basilare per la sua cultura e ha dato inizio alla sua attività di fotografo professionista. Crede che anche oggi per un fotoamatore possano esistere occasioni di incontri decisivi, come è stato il suo con Pannunzio e Longanesi?

Nel mio caso erano gli anni del “boom”, anni speciali. Un incontro come il mio con Longanesi e soprattutto con Pannunzio (grande maestro di fotografia, di vita e di cultura, non dimentichiamolo) credo non possa avvenire oggi, perchè ormai la fotografia è inflazionata. Tutti fotografano anche col telefonino ed è un male, perchè si fanno foto stupide; si sa che sono foto stupide e che non si guardano più perchè fatte sul momento. Oggi tutti dicono di essere fotografi ma molti, quasi tutti, sono solo persone che scattano fotografie. Fra scattare fotografie ed essere fotografi c’è una certa differenza.

12) Per concludere, una domanda per alleggerire il tono. Lei ha stilato una personale classifica per ciò che riguarda i suoi lati deboli: “prima la Leica, poi le donne, poi i gelati”. Volessimo farla cadere in tentazione invitandola a prendere un gelato, ci svelerebbe i suoi gusti preferiti?

Ma no, preferisco sempre la Leica, anche al gelato. Perchè la Leica è “la macchina”. E’ stata la prima 24x36 ed è stata usata da tutti i grandi fotografi. Io non credo nell’anima, nè delle cose nè dell’uomo, ma la Leica forse ha un’anima. Quando tu scatti una foto con Leica senti dietro questa macchina che c’è tutta una storia, una cultura, anni e anni di lavoro di tanti fotografi.

Quindi la si può invitare a una convention della Leica ancor più che a prendere un buon gelato?

Ah sì, senz’altro!  Però, dopo, prendiamo anche un buon gelato.

L'audio dell'intervista:




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